Teorie del complotto e Psicologia, intervista al Dottor Alessio Girolo
Scie chimiche, marziani e rettiliani domineranno una Terra piatta aiutati dal 5G e dal falso virus Covid-19. Condensate, in poche parole, ci sono alcune delle strampalate teorie che in questo periodo, tra quarantena e coronavirus, sono andate per la maggiore. Un qualcosa che è partito dai social con fake news condivise spesso da persone insospettabili, ma che è poi anche sfociato in manifestazioni di piazza e non solo.
CronacaTorino.it affronta oggi l’argomento con il Dottor Alessio Girolo, Psicologo presso Spazio Kameie di Milano, che ci parla di come nasce una teoria di complotto e degli effetti che può avere su una persona e sulla stessa collettività.
1. Dottor Girolo, come prima domanda le chiedo: come nasce una teoria del complotto?
Una teoria del complotto nasce da una condizione di disagio rispetto alla propria condizione di vita, disagio al quale è necessario dare un significato. Tale significato viene ricercato sull’asse “perdita/guadagno”: si ritiene di essere “vittime” di un’azione per la quale ci si sente danneggiati da un elemento terzo (una persona, una società, uno stato, ecc.). Un “carnefice” che, secondo tale teoria, ottiene un guadagno proprio a discapito della “vittima”.
2. Chi sono le persone che concretamente partoriscono queste idee?
Chiunque può sviluppare questo tipo di pensiero: non esiste una categoria sociale specifica nella quale rientrano i complottisti. Ci sono certamente degli aspetti caratteriali, cognitivi, psicologici e culturali che possono sostenere un pensiero complottista e una forma mentis di tipo paranoide, macro categoria nella quale possono rientrare molti (ma non tutti) i complottisti.
3. Chi sono i “complottisti” da un punto di vista psicologico?
Il complottista è una persona che si sente defraudata di qualcosa: della libertà, del potere, di una condizione economica più elevata, di un’opportunità. Il complottista sente di essere stato danneggiato in qualche modo e per ogni “vittima” che si sente tale è necessario identificare la controparte, il “carnefice”. Il pensiero diventa quindi: “c’è qualcuno che guadagna a mie spese, qualcuno che detiene un potere a mio danno, qualcuno che per arricchirsi e comandare mi ha danneggiato rendendo la mia condizione di vita limitata e insoddisfacente così come la sto percependo”.
Una caratteristica fondamentale di questo tipo di persone è il “locus of control” esterno: vale a dire mettere la responsabilità della propria condizione fuori da se stessi. Il complottista non si assume la responsabilità del proprio disagio, ma ritiene che la responsabilità della propria condizione sia di qualcun altro, o qualcos’altro; tale movimento psicologico è un meccanismo di difesa detto “proiezione”.
Questo ci deve far pensare a un aspetto fondamentale dal punto di vista clinico: il complottista percepisce una vera sofferenza; i suoi ragionamenti sono frutto di un disagio che non ha trovato soluzione attraverso le risorse personali. In tal senso, la condizione di vita di queste persone va compresa e rispettata; queste persone hanno bisogno di aiuto e supporto, al fine di poter sviluppare la capacità di assumersi la responsabilità della propria condizione, e di conseguenza anche la responsabilità di poterla migliorare.
4. Cosa porta una persona a credere a tutto quello che legge?
Penso sia un problema culturale: non ci si assume più la responsabilità di sviluppare un pensiero proprio, sulla base di ragionamenti e verifiche “scientifiche” dei fatti. Tantomeno la responsabilità di verifica delle fonti: quest’ultimo, secondo me, è il fattore più grave e pericoloso di tutti.
Risulta molto più semplice affidarsi a ragionamenti e teorie terze, che sembrano accogliere incredibilmente bene la propria insoddisfazione: è così che si “abbocca”. Questo è proprio il campo di studio della psicologia delle masse: l’opinione del singolo scompare, diluita, nel pensiero della massa e del gruppo. Non si ragiona più con la propria testa, ma con la testa del gruppo. Il gruppo accoglie il singolo, e la sua insoddisfazione, dandogli un senso di potere e appartenenza, a patto che si muova “come gruppo” e non più come singolo individuo pensante.
5. Il periodo di quarantena ha portato un aumento delle teorie di complotto e delle persone che le condividono. A cosa è dovuto?
Nei momenti di crisi, il disagio e la sofferenza personale si fanno più forti e più evidenti. Tutti quanti, in una quotidianità normale, abbiamo movimenti proiettivi, ma mediamente non diventano così generalizzati e pervasivi. La crisi ci espone maggiormente alla sofferenza e all’irrobustirsi di alcuni meccanismi di difesa quali appunto la proiezione. In questa condizione si cerca conforto dove si può, e in tal senso l’abbraccio fornito dalle teorie del complotto viene percepito come molto accogliente da molti individui.
6. Aumentando, questo fenomeno rischia di diventare pericoloso. Come si può arginare il problema?
Con la cultura. Innanzitutto una cultura psicologica personale: sviluppare la capacità di assumersi le proprie responsabilità e di sviluppare buone risorse personali rende meno necessario l’affidarsi a teorie e gruppi che possono incistare ulteriormente la propria sofferenza. Questo perché una teoria del complotto non può agire soluzioni: il “nemico” è considerato troppo forte da combattere, e l’unica soluzione è un urlo di dissenso dall’efficacia sterile: non è in grado di produrre un cambiamento positivo rispetto al proprio disagio. In secondo luogo una cultura propriamente detta: istruirsi quanto più possibile aiuta a sviluppare senso critico, metodo scientifico e capacità di ragionamento concreto.
7. Molti esperti si impegnano a sbugiardare queste teorie, ma spesso anche di fronte alle prove più evidenti si assiste a una vera negazione della realtà. Come mai?
Una teoria complottista è sempre costruita seguendo un criterio che vorrebbe definire “inattaccabile” la teoria proposta: le prove del complotto non si trovano, perché vengono nascoste. L’assenza della prova risulta essere la prova stessa delle veridicità della teoria complottista. In questo modo il complottista difende la propria argomentazione, e proprio perché “ben ragionata” (a proprio dire) la si legittima come argomentazione concreta, logica, inevitabile, solida… e quindi vera e inattaccabile.
8. Adesso si assisterà a un lento e graduale, si spera, ritorno a una normalità… Ci sarà una diminuzione di queste situazioni, oppure no?
Credo di no. Questo tipo di pensiero, che diventa una vera attitudine, un modus pensandi, non svanisce di solito, semplicemente cerca nuovi terreni e nuovi argomenti in cui proliferare.
9. Cosa può fare la collettività per attivare degli anticorpi nei confronti di queste fake news che, come dicevamo prima, rischiano di essere un problema?
Studiare, studiare, studiare. Studiare personalmente e invitare gli altri a studiare a loro volta. Creare e diffondere cultura e conoscenza scientifica.
10. In conclusione: che lezione possiamo imparare da questo periodo sull’argomento complotti?
Che le dinamiche di comunicazione sono molto potenti e anche pericolose se usate male; che studiare è il miglior modo per mettere in discussione (e verificare) la veridicità di certe affermazioni. Ci insegna anche che il disagio può essere accolto, compreso e curato. (Alessandro Gazzera)
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